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Pittura a cuore aperto

Ferrara. Già in vita il pittore Carlo Bononi (1569/80-1632) era incensato: nel 1617 lo storico Marcantonio Guarini lo definisce un «giovane di ottimi costumi, modesto e di molta aspettazione»; nel 1622 Tito Prisciani, priore della Chiesa di Santa Maria in Vado a Ferrara, dice che «Bononi merita di essere stimato perché li colori che lui adopera sono impastati di cuore liquefatto». E anche Guido Reni parla di «Sapienza grande nel disegno e nella forza del colorito».L’occhio lungo dei contemporanei si percepisce ora dalla retrospettiva, la prima mai realizzata sull’artista ferrarese, «Carlo Bononi. L’ultimo sognatore dell’Officina Ferrarese», a Palazzo dei Diamanti dal 14 ottobre al 7 gennaio con la cura di Giovanni Sassu e Francesca Cappelletti. Bononi fu un artista molto prolifico nei territori emiliani, attento alle novità della Venezia di Tintoretto, della Bologna dei Carracci fino alla Roma di Caravaggio e di Lanfranco. Roberto Longhi, nel 1934, del resto, lo pone a chiusura della grande stagione dell’Officina Ferrarese, come appunto recita il titolo della rassegna. La mostra, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e divisa in sette sezioni, prende le fila dalla scelta dei curatori di posticipare la data di nascita dell’artista. La Cappelletti e Sassu propongono di collocarla intorno al 1580, con le prime opere dunque realizzate nei primi anni del XVII secolo, al fianco di Giovanni Lanfranco, Domenichino, Alessandro Tiarini, Sisto Badalocchio, Bartolomeo Schedoni.La prima sezione, così, ne narra gli esordi attraverso la Madonna col Bambino e i santi Giorgio e Maurelio del Kunsthistorisches Museum di Vienna, prima commissione pubblica del pittore per Palazzo Comunale di Ferrara. La seconda racconta le commissioni a Cento, Mantova, Reggio Emilia, mentre la terza, attraverso disegni,  si focalizza sulle commissioni di Santa Maria in Vado (Fe) e la seguente sul santuario della Beata Vergine della Ghiara di Reggio Emilia (1622), laddove lo spazio successivo si concentra sul soggiorno romano. La quinta sezione descrive l’attività matura, mentre gli ultimi spazi ci parlano rispettivamente della produzione privata con quadri di piccolo formato e del protobarocchismo dell’artista. La rassegna termina con l’incompiuto «San Ludovico che scongiura la peste» del Kunsthistorisches Museum di Vienna, commissionato in occasione dell’epidemia del 1630.Abbiamo rivolto alcune domande al curatore.Quali novità scientifiche apporta la mostra? Si tratta della prima monografica in assoluto dedicata a un artista assai amato dalla critica, ma sconosciuto al pubblico. Il momento, grazie a studi che si sono concentrati sul tema negli ultimi anni, è giusto e del resto la sua cronologia è praticamente ancora quella degli studi di Andrea Emiliani nel 1962. Che cosa emerge? La mostra mette in crisi la data ufficiale di nascita del 1569: noi la portiamo avanti di vent’anni, del resto fonti del 1617-18 ci dicono che allora Bononi era poco più che trentenne. In questo modo c’è un suo forte posizionamento nell’ambito del naturalismo barocco. Poi gli ridiamo una forte identità ferrarese, mutuata dall’attenzione per Tintoretto e Palma. Del resto già Longhi lo definiva un bolognese-veneziano. Come inserite Bononi nel suo tempo? Ne esce da protagonista, in confronto diretto con Guercino, Ludovico Carracci e Lanfranco. Ciò è stato possibile anche grazie a un’altra novità: abbiamo individuato sul catino di Santa Maria in Vado la data di fine decorazione, nell’agosto 1617. Dopodiché Carlo va a Roma e vede Caravaggio. Avete commissionato dei restauri? Abbiamo voluto una serie di puliture, in particolare per opere provenienti da Casumaro (Fe) e Fano.Articoli correlati:Carlo Bononi, una pala giovanile ritrovata a Casumaro ...

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