Beirut città aperta

Roma. L’Iran contemporaneo a fine 2014, Istanbul esattamente un anno dopo, oggi Beirut che dal 15 novembre al 20 maggio chiude una «trilogia Mediterraneo e Medio Oriente» proposta dal MaXXI e fortemente voluta dal suo direttore artistico Hou Hanru, che cura la mostra insieme a Giulia Ferracci. Sono approfondimenti su aree estremamente vivaci, perché la storia passata e recente vi è passata come un rullo compressore. Dopo quindici anni di guerra civile in Libano, terminata nel 1990, Beirut ne usciva quasi completamente distrutta. Città cosmopolita da sempre, ricca di archeologia e di storia, durante la ricostruzione avviata negli anni Novanta ha visto prevalere logiche soprattutto economiche in un’ottica di riconquista della sua perduta (e ritrovata) centralità finanziaria, bancaria e commerciale in Medio Oriente, con buona pace per la sua identità culturale e per le testimonianze storico-architettoniche e archeologiche. «Home Beirut. Soundings the neighbors» restituisce attraverso il lavoro di 30 artisti una città di una vivacità preziosa, con una storia illustre, articolata, difficile, crocevia di popoli e di religioni, di conflitti, distruzioni e ricostruzioni, fino all’attuale ritrovata consapevolezza, non solo culturale, e a un nuovo dinamismo.Le quattro sezioni in cui la mostra è divisa fanno tutte riferimento al tema della casa: «Home for memory» è dedicata alla contraddizione tra ricordi del conflitto e tentativi di ricostruzione di una società civile. «Home for everyone?» affronta il tema della convivenza tra migranti armeni, greci, siriani e palestinesi, che si trasforma in ricchezza civica. «Home for retracing territory» documenta i profondi cambiamenti del territorio e come eventi bellici, disastri naturali e boom edilizio hanno inciso sulla città. «Home for Joy», infine, racconta l’inesauribile capacità di Beirut di rigenerarsi e farsi creativa nelle arti visive e non soltanto, al punto da essere uno dei centri più vitali del Mediterraneo. In mostra artisti anche molto noti tra i quali Mona Hatoum, Walid Raad, Akram Zaatari, i registi Joana Hadjithomas & Khalil Joreige, l’architetto Bernard Khoury, l’artista novantaduenne Etel Adnan, il giovane promettente Roy Dib e altri.

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Salvatores Mundi

Il Leonardo che il 15 novembre la Sotheby’s metterà all’asta viene da alcuni salutato come il riscatto dell’arte antica tornata a esercitare la sua superiorità su quella contemporanea, che torna ad averne bisogno per attrarre pubblico e compratori. Negli ultimi dieci anni è avvenuto esattamente il contrario. Ma ora, vuoi per carenza di opere importanti vuoi per una certa stanchezza determinata da un’offerta eccessiva, gli Old Master riassumono il ruolo di «Salvatores Mundi». L’arte contemporanea corre ai ripari. Iwan e Manuela Wirth, padroni della Hauser & Wirth, per citare un colosso galleristico, da tempo si sono resi conto dell’inversione di tendenza. Sono stati tra i primi a fare incetta di esclusive su artisti scomparsi, anche non di primissima grandezza e a puntare sulla riscoperta di buoni, per quanto epigonici, interpreti del messaggio modernista: Phyllida Barlow, l’attempata scultrice che quest’anno ha rappresentato la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia, l’hanno «fabbricata» loro. Se i contemporanei hanno il fiato corto, meglio chiedere rinforzi al passato prossimo, che spesso, ai compratori e al pubblico ignoranti di storia (la maggioranza) appare portatore di idee più fresche. Non basta. Per contrastare la rimonta dell’antico, quella cosa per cui a un certo punto ci si chiede perché Thomas Houseago costi più di un discreto seicentesco, occorre attaccare il settore nel suo terreno, o meglio sul parametro che ne determina il valore, ovvero la storia. Come fare lo ha dimostrato Damien Hirst quest’estate alla Fondazione Pinault di Venezia. Dovendo rilanciare le sue quotazioni, ha concepito una mostra in cui abolisce il concetto di tempo, collocando una statua di Mickey Mouse (la Pop art) tra i possibili reperti archeologici rivenuti in un’antica nave naufragata. H&W hanno platealmente copiato Hirst allestendo a Frieze uno stand intitolato «Bronze Age, c. 3.500 BC, AD 2017». Affidandone la cura a un professore di Cambridge, vi hanno collocato reperti museali e sculture della Bourgeois, oggetti antichi acquistati online e Martin Creed. Il tutto non a Frieze Masters, ma in una fiera d’arte contemporanea come dovrebbe essere Frieze London. L’«abolizione» del tempo e la formulazione della sua circolarità sono concetti antichi, e non a caso li ha fatti propri l’ultracitazionista postmodernismo. Ovviamente H&W lasciano trapelare una motivazione filologica: nel centenario dell’orinatoio di Duchamp, il loro stand sarebbe una riflessione su quanto il contesto (in questo caso un museo immaginario costruito in una prestigiosa fiera) conferisca valore e aura alle cose più insignificanti, anche a una comunissima moneta antica.In realtà il messaggio al collezionista d’arte contemporanea sembra molto più esplicito: caro acquirente, ricordati che certe cose vecchie le puoi trovare anche su internet e magari sono false. L’autenticità del presente è invece presentata come inconfutabile e la galleria se ne fa garante, come lo è del suo altissimo prezzo. Nel frattempo la storia dell’arte sta alla finestra. Tanto, per molti top artist di oggi probabilmente ha già fissato un appuntamento, e non tra 5mila anni, su eBay.

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