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Firenze, il secondo Cinquecento esce dal Purgatorio

Firenze. Per sgombrare il campo da ogni equivoco si dirà subito che questa («Il Cinquecento a Firenze. “Maniera moderna” e controriforma» a Palazzo Strozzi dal 21 settembre al 21 gennaio, catalogo Mandragora, Ndr) non sarà un’altra esposizione dedicata al Pontormo o al Rosso Fiorentino, dopo quella di tre anni fa (cfr. n. 340, mar. ’14, p. 29). La «Deposizione Capponi» del Pontormo, al pari di altri celebrati capi d’opera, verrà esposta (dopo che un sensibile restauro ha esaltato la sua vivida cromia) all’esordio del percorso per illustrare l’origine lirica dei linguaggi che gli artisti del tempo di Francesco e poi di Ferdinando de’ Medici fecero propri. La mostra è dedicata infatti a quella stagione di secondo Cinquecento, impareggiabile, che per solito viene indicata come età della Controriforma; vocabolo, questo, che, per via di un’inquinante stagnazione culturale, evoca perlopiù un periodo umbratile, il crepuscolo di un secolo grande. E fu invece, a Firenze, un’epoca segnata da episodi intellettualmente e culturalmente ragguardevoli: la creazione dell’Accademia delle Arti del Disegno (1563), la pubblicazione delle Vite vasariane nelle due edizioni torrentiniana (1550) e giuntina (1568), la realizzazione d’imprese eminenti, com’è lo Studiolo di Francesco I (1572), in cui furono impegnati artisti d’alto tenore, ma per la maggior parte ancora sconosciuti al grande pubblico. Proprio a loro è dedicato questo terzo capitolo di una trilogia iniziata con la mostra del Bronzino (2010; cfr. «Vernissage» n. 118, set. ’10, pp. 8-9) e proseguita con quella del Rosso Fiorentino e del Pontormo (2014). Per comprendere i fondamenti e l’origine dell’espressione di artisti quali Santi di Tito, Alessandro Allori, Girolamo Macchietti, Giambologna (quattro di una trentina impegnati nello Studiolo di Francesco I), si è reputato di dedicare le due sale iniziali del percorso alla varietà dei linguaggi della prima metà del Cinquecento, rappresentati da una sola lirica opera di quei grandi che ne furono i maestri, ideali o reali. L’esordio è col grande modello di Michelangelo per uno dei fiumi della Sagrestia Nuova: un monumentale corpo nudo che s’inarca adagiato sulla schiena. L’opera si rilegge oggi in tutta la sua potenza plastica dopo un attento restauro, che, rimossa la cromia scura e sorda (quasi fosse una patina evocativa del bronzo), si offre colorata di un luminoso bianco di piombo (a fingere il marmo) e a rendere sensibili le pieghe della carne come in poche altre opere di Michelangelo. Nella prima sala il modello del Buonarroti dialoga con la «Pietà di Luco» di Andrea del Sarto, tavola anche iconograficamente cara agli artisti operosi negli anni della Controriforma proprio per l’icastica evidenza del Cristo morto che, adagiato a sovrastare l’ostia consacrata e il calice da messa, ribadisce in essi la reale presenza di lui in corpo e sangue. L’eloquio accostante, quieto eppure vibrante di Andrea e la chiarezza delle sue figurazioni, fecero del Sarto il maestro più studiato e copiato dagli artisti che a Firenze lavorarono nel clima postridentino. Di seguito ci s’imbatterà nel confronto, mai finora proposto a questo grado di qualità, delle tre principali vie pittoriche fiorentine fino al 1540: come in un trittico mozzafiato si fronteggeranno le tre «Deposizioni» che segnarono l’intero secolo: quella volterrana del Rosso Fiorentino (1521), quella del Pontormo di Santa Felicita (1526-28) e quella del Bronzino per la cappella di Eleonora in Palazzo Vecchio (1543-45; pala quasi subito donata da Cosimo I al consigliere dell’imperatore Carlo V, inviata a Besançon e da allora più tornata in Italia). La vasariana «Maniera moderna» ai suoi massimi vertici è posta infine a riscontro con opere di Salviati, Cellini e del giovane Vasari, a chiudere un’epoca che verrà cristallizzata dopo due decenni nelle Vite vasariane del 1568. È un inizio che intende riassumere le due precedenti esposizioni da noi curate a Palazzo Strozzi, presentando un florilegio stringato e sublime di opere che in quelle due mostre non erano tuttavia esposte: prologo necessario alla comprensione di artisti che su quegli esempi si sarebbero formati. Da questo momento la rassegna si dipana attraverso vie tematiche e cronologiche che indagano sulla libertà espressiva ancora possibile a Firenze negli anni successivi al Concilio di Trento, in una dialettica fra «sacro» e «profano», o, come nel 1584 avrebbe detto Raffaello Borghini, fra «lascivia» e «divozione». Agli esiti dei precetti conciliari sono informate, nella grande sala seguente, le splendide pale d’altare, eseguite da artisti quali Santi di Tito, lo stesso Vasari, Giovanni Stradano, Alessandro Allori, che del Bronzino fu allievo e quasi figlio; e che sarà rappresentato dal «Cristo e l’adultera», restaurato per l’occasione e posto a ridosso della grandiosa «Immacolata concezione» del Bronzino (1572 ca), ultimo suo lavoro, praticamente sconosciuto ai più e oggi tornato leggibile in virtù di un restauro che ci ha restituito la voce estrema di Agnolo, pittore e poeta. La libertà espressiva dell’arte fiorentina (confortata anche dal sostegno che le Accademie dispensarono a pittori e scultori) di nuovo appare in tutta la sua vivacità nella sala dedicata alle opere di soggetto profano, miti e allegorie, dipinte o scolpite però dai medesimi artisti. Le creazioni dei cosiddetti «artisti dello Studiolo» sono poste a confronto fra loro, senza escludere le monumentali sculture realizzate da Giambologna e Ammannati per le ville medicee di Castello e Petraia. Ma quegli stessi artisti, con la varietà dei loro idiomi, godranno in mostra anche di una sala che dello Studiolo sarà evocativa. Una varietà che sarà documentata da opere di Maso da San Friano, Cavalori, Macchietti, Naldini, Sciorina e poi di nuovo di Allori, Santi di Tito, Vasari e tanti altri artefici che saranno una scoperta per la più parte dei visitatori. Nel contesto di quella «varietà» sarà offerto alla riflessione il tema del ritratto, in tutte le sue declinazioni, più o meno naturalistiche, ma anche narrative, che è modalità sconosciuta alla prima metà del secolo. Il percorso si compirà con quei medesimi pittori, Santi di Tito e Allori in testa, ma anche il Cigoli e l’Empoli e gli scultori Giovanni Caccini e Pietro Bernini, che mutano il proprio linguaggio e s’apprestano a entrare nel nuovo secolo. Sono così testimoniate le tensioni naturalistiche e prebarocche che nell’ultimo decennio animarono Firenze. Tensioni che qui mai rinnegarono il disegno; il quale rimase fulcro anche della fioritura, altrove, d’istanze espressive nate in riva d’Arno. Il sipario cala su quella stagione bella, e insieme si chiude anche una riflessione critica sul Cinquecento fiorentino principiata molto tempo fa.Articoli correlati:La Maniera supera le manieUn realista di belle maniere ...

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